Vi risparmio la faccia tra il compatimento e il sarcastico di mio figlio quando gli ho detto un paio di mesi fa: “A cavallo di luglio e agosto vado per dieci giorni a seguire un corso”.
“Spero che ne valga la pena” gli ho risposto, e adesso posso dire che ne valeva proprio la pena. Quindi vorrei condividere l’esperienza della partecipazione alla Complexity Management Summer School.
Innanzi tutto è stata una fatica fantastica.
Dieci giorni e parecchie notti di una intensità pazzesca, con una batteria di “docenti” e ospiti da favola e una ventina di alunni estremamente “intriganti” per varietà di estrazione: dal fotografo professionista, al direttore d’ospedale, al responsabile della innovazione, all’imprenditore belga, al responsabile dell’Enterprise Architecture di una banca, all’HR, alla Social Responsability, e così via.
I docenti restavano a disposizione per 4-5 giorni di cui 1 e mezzo a fare lezioni, giochi, laboratori e “community” o consulenze personali (anche in team) per il resto del tempo.
Diciamo che ci si poteva “ubriacare” facilmente con le diverse sfaccettature della complessità: l’aspetto filosofico, sociologico, tecnologico, organizzativo sono stati quelli più nettamente emersi durante il “corso”.
Per farla molto breve quello che ho imparato è che c’è un tipo di complessità oggettivamente evidente ma spesso non considerata: la complessità sociale.
Il fatto cioè che in qualsiasi aggregato di persone ognuna è un individuo con una sua visione di sé, degli altri (come genere) e del mondo ai vari livelli che si intersecano (la famiglia, le comunità in cui vive -città, azienda, etc.-) e che porta questo suo “essere e credere” nelle interazioni che ha con gli altri, influenzando con la sola sua presenza il comportamento di ognuna di queste.
Alla faccia del disegnare le organizzazioni con rettangoli e frecce!!
Tenere conto della complessità sociale significa tenere conto di questo aspetto, e quindi essere consapevoli della realtà che il comportamento degli aggregati di persone è largamente impredicibile, quindi occorre guidarlo dolcemente piuttosto che prescrivere. La prescrizione influenza i comportamenti pressoché sempre in modo negativo, e sono veramente pochi i casi -almeno nel knowledge work- in cui una prescrizione viene vista come una indicazione chiara da supportare.
La mia conclusione è che tutte le organizzazioni sono socialmente complesse per definizione e gli stili correnti di gestione (command and control) vengono sopportati ma non supportati, con la conseguenza diretta che le persone si difendono anziché partecipare.
Un po’ di riferimenti sui docenti, per chi avesse interesse a leggere.
Alberto Gandolfi su Google Scholar
e l’ospite “off the records” che ci ha mostrato che è possibile cambiare le organizzazioni:
Chi è interessato a qualche approfondimento, non deve fare altro che chiedere.
molto interessante. già scaricati i pdf. si allunga la lista delle cose da leggere. ma in questo caso credo che ne valga la pena.