Nuovi modelli di management: ne parliamo con Chiara Montanari
Chiara Montanari è capo spedizione per le missioni di ricerca in Antartide ed è una consulente di temi organizzativi in scenari difficili.
È una donna entusiasta del suo mestiere e quindi trasmette passione, oltre che informazioni, e questo rende particolarmente piacevole parlare con lei.
Mi ha fatto sorridere sentirla descrivere l’Antartide un po’ come l’isola che non c’è: dice che di solito non compare nelle cartine in cui le multinazionali mostrano la loro capillare presenza.
In questo contesto Chiara ha sviluppato le sue doti manageriali e di leader (lo so… è una parola molto inflazionata ultimamente) ed è stato quindi naturale invitarla a fare una presentazione da noi in azienda.
A Imola Informatica non facciamo missioni in Antartide ma ci occupiamo di progettare e organizzare i sistemi informativi per grandi aziende.
Spesso ci troviamo in situazioni molto fluide e imprevedibili, per cui l’esperienza e le capacità di Chiara possono darci un contributo significativo.
In particolare stiamo sviluppando un nostro modello organizzativo e un nostro metodo di risoluzione dei problemi partendo dallo studio della teoria della complessità e del pensiero sistemico: due elementi che ci accomunano a Chiara e al suo stile di gestione.
Approfitto della cortesia di Chiara per farle alcune domande.
Perché la teoria della complessità è utile nella gestione di un’organizzazione? Non bastano le teorie classiche del management?
«Più che di teoria si dovrebbe parlare di scienze della complessità, dico questo perché è proprio importante capire che non si tratta di un altro modello che si aggiunge ai milioni di modelli già esistenti, ma di un approccio alle cose. Si tratta di “un modo di vedere il mondo” che include la diversità, la divergenza e le contraddizioni e che ci permette di usare meglio gli strumenti che abbiamo, invece che di usarne altri. Questo, per esempio, è molto utile in Antartide, perché quando ti trovi in pericolo di vita non hai tempo di cambiare gli strumenti o il team a disposizione, devi finire un progetto (oppure salvarti la pelle) con quello che hai in quel momento, così, imparare a riorganizzare le risorse e vedere le cose da molteplici punti di vista può rivelarsi la dimensione più efficace.»
Molte volte nelle nostre discussioni hai sottolineato l’importanza delle persone e di come dovrebbero essere accompagnate verso prestazioni migliori.
Allo stesso tempo mi hai però raccontato che tu non puoi sceglierti il tuo staff e che devi «fare il pane con la farina che hai a disposizione».
Qual è il primo aspetto di cui ti preoccupi quando ti viene presentato un collaboratore?
«Le basi di ricerca sono sistemi complessi e autonomi in cui ogni specialista è unico e fondamentale per la riuscita della missione. Quindi, rispetto ad un membro del team (preferisco parlare di team più che di collaboratori, per sottolineare che siamo tutti parti di un tutto unico, al di là dei nostri ruoli individuali) direi che ci sono 3 questioni fondamentali
- La competenza, che evidentemente deve essere alta
- La vivacità intellettuale (l’Antartide è il regno dell’incertezza, quindi è necessario avere a disposizione persone capaci di cogliere le situazioni e trovare soluzioni)
- La flessibilità (gli imprevisti sono all’ordine del giorno e bisogna essere molto adattabili per superare alcune circostanze)
Tutto ciò idealmente, perché in effetti non tutti i team sono perfetti, quindi se poi queste caratteristiche non ci sono, bisogna trovare un modo per svilupparle all’interno del team ed in breve tempo. Per questo infatti da molti anni mi sono messa a fare studi e ricerche sulla complessità (centro di antropologia ed epistemologia della complessità di Bergamo).»
In molte organizzazioni vengono favoriti gli “yes-man”, quelli che si adattano al pensiero dominante del momento, eppure Drucker affermava che il dissenso favorisce decisioni migliori.
Qual è la tua opinione? Tu come prendi le tue decisioni?
«Secondo me il dissenso è molto creativo, poiché porta con sé la divergenza di opinioni (ovvero punti di vista differenti sullo stesso oggetto). In Antartide incoraggio anche le discussioni animate se mi pare che ciò serva al team per capire quale sia la strada migliore da percorrere. Chiaramente alla fine sono io l’unica responsabile della decisione presa e anche delle relative conseguenze, ma in un ambiente estremo è impossibile decidere da soli, è sempre necessaria una discussione collettiva per capire quali saranno le conseguenze da varie angolazioni, almeno fino a dove sono visibili.
Trovo molto ironico quando, a volte, mi capita di incontrare dei coach che “spiegano” e “facilitano” il cosiddetto “pensiero laterale” e poi, appena inizia una discussione con qualche accenno a divergenze di opinioni, si affrettano a sedarle. Alla fine, di solito, sintetizzano tutto “per bullet” e affermano che il “pensiero collettivo” è la lista dei commenti individuali legati dal magico “e anche”.
Questa interpretazione del “pensiero collettivo” come mera somma delle parti mi pare abbastanza semplicistica e decisamente riduttiva, sicuramente è molto lontana dall’interpretazione che ne danno sia la scienza della complessità sia le neuroscienze.
Il conflitto è parte integrante di ogni processo di costruzione e come tale dovrebbe essere accettato. La cosa difficile è fare in modo che rimanga confinato al ruolo di divergenza di opinioni su un oggetto e che non sfoci in guerra tra persone. Ovviamente questa è la parte più difficile da gestire ed è proprio qui che emerge la competenza di un “leader”.»
Chiudo ringraziando Chiara per la disponibilità e sono curioso di approfondire insieme a lei i temi di gestione e organizzazione in situazioni complesse.